Disagio

“Prima o poi mi alzo” si disse senza aprire gli occhi. Prima o poi! Nel frattempo si concentrò sul silenzio intorno a sé.
Il silenzio aveva dei suoni particolari, era un mondo abitato da sottili e invisibili corpuscoli, molto invadenti: “Devo alzarmi e uscire… oggi è il giorno in cui devo fare qualcosa o era ieri?”
Dopo qualche tempo riuscì a tirarsi su dal letto.
Si alzò, sempre tenendo gli occhi chiusi. S’infilò i jeans, la camicia e le scarpe. E, sempre con gli occhi chiusi, si avviò verso la porta, la spalancò con un gesto deciso e uscì. “Devo aprire gli occhi, non posso fare il palo cieco all’infinito”. Strizzò con forza tutta la faccia e li aprì. Ce l’aveva fatta!
Incominciò a camminare piano piano, rasente il muro con la mano che a tratti strisciava su di esso, dapprima senza guardarsi intorno. Avvertiva un’atmosfera da brivido, confusamente ricordò che era la stessa di alcuni giorni prima: ieri o l’altro ieri non ricordava che cosa avesse fatto, ma non pensava di aver superato la soglia di casa…
Non capiva perché non ci fosse nessuno in giro. Alcuni negozi e case avevano la porta o le finestre aperte, tuttavia, se guardava dentro, non vedeva anima viva.
C’erano macchine e qualche moto nel mezzo della strada, ma senza le persone che le guidavano. Non si vedevano né uomini, né donne, né bambini. Anche il bus della scuola, fermo al semaforo che in quel momento era rosso, era vuoto.
Eppure c’erano dei segni di vita intorno: dal bar alla sua destra, un paio di case più in là, usciva un intenso profumo di caffè, si avviò in quella direzione, lentamente.
Sul banco, in bella mostra, vide dei croissant freschi, “qualcuno deve pur averceli messi”, mormorò. Ne prese uno per mangiarlo, ma non riuscì neanche ad addentarlo. Una violenta nausea s’impadronì del suo corpo, gli odori divennero insopportabili: dovette uscire in fretta e furia per non vomitare.
Si fermò un istante: aveva visto una macchina gialla. La ricordava! Apparteneva a qualcuno che conosceva, ma… a chi? Frugò nella memoria alla ricerca di un nome, un viso, nulla! Strano che non l’avesse notata entrando. Si avvicinò per vedere chi c’era nell’abitacolo, la macchina era… vuota!
Incominciò a percepire la stranezza della situazione: che cosa stava accadendo? Dov’erano tutti? Per qualche minuto si sentì in preda al panico, voleva chiudere gli occhi, tuttavia non lo fece per timore di non poterli riaprire.
Mosse la bocca come per parlare, ma aveva la gola secca e non emise alcun suono o gorgoglio: “Oggi dovevo fare qualcosa, ma… che cosa?” Riprese a camminare barcollante, pensando che aveva qualcosa da fare. “Devo andare a vedere qualcuno”.
Si concentrò su questo pensiero: “Sì, devo andare a vedere qualcuno… è proprio quello che devo fare” si convinse. “Meno male che mi è venuto in mente”.
Si avviò. Un passo dopo l’altro in una città dove sembrava non ci fosse nessuno e in cui si sentiva l’unica creatura vivente. In qualche modo, prima o poi, avrebbe raggiunto una meta.
Camminò a lungo, strascicando i piedi, sentiva un profondo senso di smarrimento dentro di sé, un freddo intenso e brividi lungo il corpo. A volte il traffico si muoveva impazzito, con un fracasso assordante, per poi scomparire del tutto, come se, all’improvviso, una nebbia fitta ingoiasse ogni rumore e contatto con la realtà.
Si trascinò per ore, finché s’imbatté in una costruzione imponente che incuteva soggezione e rispetto a chi la guardava. Esitò, non sapeva se entrare o fuggire: non c’era nessuno a cui chiedere, nessuno a cui parlare, non vedeva nessuno nemmeno qui.
Chiuse gli occhi ed entrò. La stanchezza e lo sfinimento ebbero la meglio sulla paura, non mangiava e non beveva da tempo e non sapeva più dov’era.
Vagò all’interno dell’edificio per qualche tempo, infine, si accucciò in un angolo, senza più forze. Si appisolò. Dopo un intervallo di un’ora o un giorno, chissà, sentì dei rumori, qualcuno che si avvicinava, si fermava e osservava lungamente il mucchietto raggomitolato su se stesso.
Non poté aprire gli occhi per guardare. Tra le palpebre filtrava un’ intensa, solida luce bianca da cui proveniva una voce. La voce, dal timbro professionale, diceva: “Soffre di gravi allucinazioni sensoriali, sta molto male. Bisogna predisporre un ricovero immediato. Aspettavo da più giorni che si presentasse. Ce l’ha fatta, per fortuna. E da sola!”

2 Pensieri su &Idquo;Disagio

  1. atmosfera intensa: nel vuoto anaffettivo riecheggia un malessere senza tempo (“prima o poi”, “un’ora o un giorno”) ad acuire il senso di smarrimento della protagonista. m’è parso anche che il racconto si muova (o almeno così l’ho letto) su un piano metanarrativo in cui l’assenza e la presenza coincidono, così come nella realtà virtuale generata dai social network (si intuisce l’esistenza dell’altro, del “qualcuno”, ma in realtà manca il contatto fisico). toccante anche l’impossibilità di comunicare – il mio nanoforisma preferito è, ahimè, “l’incomunicabilità muove il mondo” – che prende corpo nel passo “mosse la bocca come per parlare, ma aveva la gola secca e non emise alcun suono o gorgoglio, nulla”. bello pure il finale in cui l’atmosfera prima si fa vagamente kafkiana e poi risolve il dramma in quel “timbro professionale” che pare dire molto (ma forse, in ultima analisi, con buona pace dei medici tutti, non dice niente tranne il fatto che viviamo in universi soggettivi più o meno disfunzionali). compliments.

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