Cappuccetto Rosso

La fiaba di Cappuccetto Rosso come la racconto ai miei nipotini

Cappuccetto Rosso saluta la mamma sorridendo. La casa della nonna non è distante dalla sua: solo cinque minuti di strada a piedi. Indossa la mantella rossa con il cappuccio che le ha cucito la mamma e, per questo, la chiamano Cappuccetto Rosso, ma il suo vero nome è Rossina. Quando è nata aveva un bel ciuffo di capelli rossi e Rossina sembrava proprio un bel nome per una testolina così colorata.
“Stai sul sentiero Rossina, non camminare nel bosco perché da lì non ti vedo”.
Le raccomanda la mamma, come sempre.
“Va bene, mamma, non ti preoccupare”.
Cappuccetto Rossina promette, ma a volte si dimentica, nel bosco ci sono tanti fiori belli e colorati, che può raccogliere per la mamma e per la nonna. E poi è diventata grande, da quest’anno va a scuola!
Quasi ogni giorno va a trovare la nonna, le porta un cesto con delle cose buone da mangiare. La nonna le insegna a fare i dolci, leggono tante storie e a volte pranzano o fanno merenda insieme, poi Cappuccetto Rossina torna a casa.
Oggi, mentre raccoglie fiori sul ciglio del sentiero, le si avvicina un lupacchiotto, ha un aspetto simpatico, si guarda intorno con aria timorosa, come uno che ha paura di essere sgridato. A Cappuccetto piace, le sembra un cucciolo come lei:
“Ciao, dove vai?”
“Mah, giravo un po’ intorno, per passare il tempo. E tu, che fai?”
“Io vado dalla mia nonna, oggi pranzo con lei”.
“Ah si? e che cosa mangiate?”
“La mamma mi ha preparato tante cose buone: la torta e anche una frittata con le uova delle nostre galline, senti come profuma…”
“Sì, mi viene l’acquolina in bocca, quasi svengo dalla fame a sentire l’odore…”
“Oh poverino, non hai ancora mangiato, oggi?”
“No, non mangio da ieri. Non trovo nulla”, risponde triste il lupotto.
“Mi dispiace, ma se non trovi nulla, qualcuno ti darà ben qualcosa?”, chiede Cappuccetto Rossina.
“No, nessuno mi dà niente, anzi, mi lanciano le pietre, quando mi avvicino”.
“Che cattivi! A te cosa piace mangiare?”
“Tutto! Io dovrei essere carnivoro, ma sono pronto a diventare onnivoro, pur di mandar giù qualcosa”.
“Magari ti piacerebbe una bella frittata!” esclama Cappuccetto Rosso.
E così dicendo prende la sua parte di frittata dal cestino e gliela dà, tutta contenta. Il lupotto se la mangia in un baleno: mai visto un lupo più felice di lui…
“Ma come ti chiami?”, le domanda, dopo.
“Rossina,  ma anche Cappuccetto Rosso, per via della mantella rossa con il cappuccio che mi ha cucito la mamma. E tu?”
“Io sono un lupo, non ho un nome. Se vuoi, puoi darmene uno tu”.
“Sì, mi piacerebbe. Tu mi sei simpatico. Chiederò alla nonna se qualche volta puoi venire a farci compagnia”.
“… e magari mangiare una frittata con voi.” aggiunge il lupacchiotto speranzoso.
“Ora devo andare. Vuoi fare un pezzo di strada con me?”.
“Molto volentieri”. risponde lui.
E si avviano verso la casa della nonna, chiacchierando.

Il regalo di compleanno

“I love you”. Furono le uniche parole che poté dire. Aveva due scelte: il vuoto o le fiamme. Nient’altro!
“Voglio stare alcuni momenti solo con te, bambina mia, parlarti”.
E chiuse gli occhi, avviandosi piano verso la finestra. Ebbe un momento di esitazione, poi, prima di lasciarsi andare, si mise a parlare con dolcezza, quasi un mormorio, allungò la mano per  stringere una manina con un gesto lieve e tenero, le fiamme ormai lambivano il suo corpo:
“Buon Compleanno, piccola!”
“Grazie papa! Da oggi non ho più quattro anni, vero?”
“No. Ne hai cinque. Questo weekend andremo al parco, io e te soli. Lasceremo a casa la mamma che ne approfitterà per farsi bella. Che ne dici?”
“Andremo anche sullo scivolo e a vedere la vasca dei pesci?”
“Tutto ciò che vorrai, sarai la mia girl friend!”
“Che bello papà, ci divertiremo un mondo. Possiamo mangiare il gelato fragoroso?”
“Certo, ma non ti piaceva il gelato al cioccolato?”
“Adesso mi piace anche quello alla fragola”.
“A sera passeremo a prendere la mamma e ceneremo tutt’e tre insieme”.
“Sììì… Sai papà, il mio orsetto ha perso un occhio. La mamma dice che dobbiamo portarlo dal dottore. Lui ha quattro anni, uno meno di me, ma non va alla scuola materna. Chissà come si annoierà a casa, tutto solo”.
“No, non si annoia. Ti aspetta sempre”.
“Come me quando aspetto te che non arrivi?”
“Mi dispiace cara. A volte sono costretto a far tardi per il lavoro. Ti voglio rivelare un segreto: quando sono lontano, ricorda che ti voglio tanto bene”.
“Anche alla mamma?”
“Si, siete le donne della mia vita. E voglio occupare un posto speciale nel tuo cuore: anche se tu non mi vedrai, io ci sarò”.
“Come sei serio, papà!”
“Ti ricordi la settimana scorsa al mare? Ti portavo sulle mie spalle, andavamo lontano al largo per ore, è stato bello, vero?”
“Sì, bellissimo, torniamoci presto, papà!”
“Ascoltami Carol, devi imparare a nuotare bene, io ti seguirò e avrò cura di te. Prometti?”
“Ma io nuoto già, papà, mi hai insegnato tu”.
“Sì, ti muovi bene in acqua, ma devi imparare ancora meglio”.
“Ti prometto che diventerò bravissima e ci divertiremo tanto”.
“Io veglierò su di te… sarà il mio regalo di compleanno: diventerò il tuo “Angelo Custode”.

Un’adolescente graziosa, con i capelli lunghi, sciolti sulle spalle, cammina assorta lungo la spiaggia. A volte si ferma, si guarda intorno, osserva ogni particolare con attenzione, come se volesse ritrovare o ricordare momenti già vissuti.
“Era proprio qui che mi mettevi sulle spalle”, mormora tra sé, avviandosi lentamente verso l’acqua, si lascia avvolgere dall’abbraccio delle onde ad occhi socchiusi, sorridendo “Amo il mare”.
Nuota piano, rilassata, si muove in armonia con tutto ciò che la circonda:
“Mi piacerebbe diventare una biologa marina, penso che sia una lavoro che farei volentieri. Conoscere il mare e le sue creature mi affascina”, il suo sguardo vaga lontano, “La favola della sirenetta era la mia storia preferita”, fa un guizzo sott’acqua per riapparire poco dopo, sorride ancora, “poi stare in acqua mi diverte”.
Sembra appoggiarsi alle onde per un momento, allunga una mano… le sfiora come in una carezza: ”Mi sei mancato papà, il desiderio di abbracciarti, di toccarti era grande, ma ti ho sentito vicino a me, in ogni momento” sussurra, “sono passati dieci anni dalla nostra vacanza, stavamo in acqua tutto il giorno o cercavamo conchiglie aspettando il tramonto. Di notte mi mostravi le stelle e io mi addormentavo tra le tue braccia”, sospira e continua, come a voler comunicare qualcosa della sua vita:
“La mamma mi ha permesso di venire. E’ il regalo per il mio compleanno. Ci tenevo tanto, siamo venute io e lei”. rallenta il ritmo, un poco turbata “La settimana prossima ci recheremo a New York. Io preferirei non andarci, ma la mamma lo desidera molto. Verrà anche Alan, lui si prende cura di noi e io gli sono molto affezionata”, fa una pausa e, con una nota gioiosa nella voce, aggiunge:
“presto nascerà il mio fratellino, sono molto contenta di avere un fratellino. Gli insegnerò a nuotare!” un pensiero le attraversa la mente, chiude gli occhi commossa e dice in un bisbiglio:
“Noi saremo sempre le donne della tua vita. Grazie, papà!”

Undici Settembre duemilaundici, ore nove. Un’adolescente graziosa, dai lunghi capelli castani, pone un fiore su Ground Zero. Non è l’unica a compiere il gesto, ci sono altri figli, mogli, genitori a rendere omaggio alle vittime di quel giorno. Più tardi, in un convegno commemorativo, la stessa fanciulla, visibilmente emozionata, sale su una pedana e incomincia a parlare.
“Mi chiamo Carol, ho quindici anni. Mio padre, l’undici settembre di dieci anni fa, si trovava al di sopra della linea colpita dagli aerei. Non avrebbe avuto scampo insieme alla maggior parte di altri sventurati che erano in quella zona. Lui riuscì a parlare al telefono a mia madre e le disse solo: “I love you”. Null’altro. Non l’abbiamo più ritrovato, né avuto sue notizie.
Era il mio compleanno, mi aveva promesso che avrebbe fatto il possibile per rientrare presto e spegnere le candeline con noi. Ricordo di averlo aspettato a lungo. La mamma mi accarezzava e aveva gli occhi rossi.
Da quel giorno io sento la sua presenza accanto a me, sempre. A volte, quando sono triste, avverto un soffio lieve sulla mano.
Dieci anni fa abbiamo avuto la fortuna di trascorrere un periodo di tempo al mare, insieme. E’ stato così bello che non volevamo ritornare. Papà riuscì a prolungarlo di qualche giorno. Io, oggi, voglio ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile quei momenti indimenticabili: un grande dono fatto a tutti e tre. E’ stata una vacanza meravigliosa, alle origini della mia vita e del mio futuro.
In quella vacanza il mio papà nuotava per lunghi tratti, portandomi sulle sue spalle, mentre io gli davo tanti baci sulla nuca e gli facevo il solletico. Parlavamo sempre. Mi insegnò a galleggiare e a guardare le stelle, di notte. Mi raccontava le storie del mare e delle sue creature.
Non dimentico nulla di quei momenti e sono grata per averli vissuti. Ogni volta che nuoto nel mare è come se lo facessimo insieme. Io gli parlo dei miei progetti e dei miei sogni. Lui veglia su di me”.

Giovanna Rotondo Stuart

Skinny

Spero che li facciano sedere un poco davanti alla tele, ho la testa che mi scoppia. Fanno un chiasso infernale! Ahi, uno dei bimbi, il più grande, quello biondo ricciolino, mi ha dato un calcio:
“Brutto non mi piaci”, mi ha detto, tirandomi fuori la lingua; ci sono rimasto male! Perché non gli piaccio? Per fortuna che è intervenuta la nonna:
“Non toccare Skinny. Lui è il mio amico!” e l’ha sgridato.
Poi hanno ripreso a girare con quegli arnesi infernali, che chiamano monopattino, urlando!
“Bimbi è ora di cena. Fra cinque minuti si mangia. Tutti a lavare le mani. Avanti, marsch!”
Meno male! Almeno ci sarà un po’ meno baccano e poi, mi auguro, andranno a letto presto. O meglio ancora, a casa loro!
“Nonna ma perché Skinny è tuo amico? A me non piace”.
La voce è quella del piccoletto biondo. Ma perché non gli piaccio? Di solito mi trovano tutti molto interessante, mi osservano, fanno commenti su come sono fatto, si fermano a guardami, direi che mi ammirano…
“Ma guarda com’è bello! Io e lui siamo amici da tanti anni”.
Grande amica! E’ vero ci conosciamo da quando non era ancora nonna.
“Bello? Nonna, ma lo sai che sei un po’ strana! Come fa a essere bello quel coso lì?”
Questa è una grande offesa: chiamarmi “coso”. Il coso sei tu, piccolo impertinente!
“Beh, prima o poi gli assomiglieremo tutti”.
“A lui? Tu, io no!”
Che bel complimento! Mi fa proprio felice. Non ci avevo mai pensato che prima o poi mi avrebbero assomigliato. Allora vuol dire che non sono poi tanto brutto. La giornata sta finendo bene, sono contento.
Sono andati a letto. Oh meraviglia! Posso finalmente godermi un po’ di pace. Ma guarda che luna, una stupenda luna piena che illumina tutto. E’ un privilegio poter ammirare questo bel paesaggio. Dov’ero prima non vedevo niente, solo una parete bianca con qualche disegno appeso. Sono contento che mi abbiano trasferito qui, mi sento meno solo.
Ma quei gatti come miagolano! Forse miagolano alla luna… e anche i cani si sono messi ad abbaiare. Ecco, hanno rotto l’incanto. Ma Tacete! Shhhhh sento dei rumori, chi può essere a quest’ora? Non ho capito da dove provengono, non ho sentito la porta aprirsi, mi sembra di udire un fruscio di passi, come quando si cammina a piedi nudi. Ma chi può essere? Uno di noi avrebbe acceso la luce! Qualcuno si muove con circospezione… non vedo più la luna tanto bene, una figura si è sovrapposta tra me e lei e l’ha oscurata. Vedo un’ombra stagliata contro la finestra: sono irrigidito dalla paura, non so cosa fare. L’ombra si gira… ecco, avanza verso di me, non distinguo chi è, non vedo niente, un urlo. Silenzio! Aiuto, aiuto, c’è qualcuno! Una sedia rotola facendo un grande fracasso, vedo una figura che si allontana, inciampa e cade, si ode ancora baccano e un altro grido:
“Quello stupido coso!”
Si accende una luce, ancora quella parola… non sarò io lo stupido “coso”?
Vedo la mamma del piccoletto biondo.
“Ma cosa succede?” sono arrivati anche la nonna e il nonno.
“Nulla, sono inciampata e sono caduta”.
“Ti sei fatta male?”
“Per fortuna no, ero venuta a bere un bicchier d’acqua. C’era la luna che illuminava la stanza e si vedeva abbastanza. Non ho acceso la luce. Poi mi sono girata e, di colpo, me lo sono visto davanti, in un bagliore fosforescente! Mi è andato il sangue in acqua. Mi ero dimenticata che l’avevi messo là. Mi ha spaventata da morire. Butta via quell’orribile scheletro, non voglio più vederlo!”

 Giovanna Rotondo Stuart

The gravel breaker (Il sogno di Jebel)

Jebel era accovacciata ai bordi di un mucchio di pietre, una parte di queste era di piccole dimensioni, le altre piuttosto grandi. Aveva un martello tondo in mano, un martello con l’impugnatura di legno e la testa metallica. La mano sinistra teneva ferma la pietra mentre la destra la colpiva. Era una gravel breaker: una spacca pietre.
Dietro di lei si vedevano cumuli di pietre già pronte o da frantumare e altri gravel breakers, per lo più donne con i loro bambini, che spaccavano pietre anche loro. Sul fondo una serie di capannoni grigi.
Jebel avrebbe ricevuto alcuni dollari di paga per la quantità di lavoro eseguito. Era un lavoro duro e spesso doveva interromperlo perché le faceva male il braccio e le venivano le vesciche alle mani. Stava imparando ad usare il martello anche con la sinistra, all’inizio aveva fatto molta fatica, ma migliorava.
Era qui dall’alba, fra poco avrebbe fatto molto caldo e lei aveva la bimba con sé e doveva allattarla. Il mucchietto di stracci che la conteneva era accanto a lei, coperta da un telo per ripararla dal sole.
Jebel abitava vicino al fiume, alla periferia della città di Juba, la capitale del Sud Sudan, e ci voleva quasi un’ora da dove si trovava, alle pendici del Jebel Kujur, la montagna di Juba, per giungere alla sua capanna e un’altra buona mezz’ora per andare al fiume a prendere l’acqua.
Si alzò e prese la bimba per allattarla, si sarebbe messa in cammino subito dopo aver ricevuto la paga per il suo lavoro. Era molto magra, quasi emaciata, come la maggior parte della popolazione del Sud Sudan. Appariva molto giovane, doveva avere meno di vent’anni.
Suo marito, l’uomo a cui era stata ceduta adolescente, era rimasto ucciso in uno dei tanti raid tribali per il controllo della terra, del petrolio o dell’acqua.
Lei e la bimba si erano rifugiate, con altri profughi, in un campo di assistenza internazionale. Sua figlia aveva circa un mese, durante la fuga non si trovava cibo e lei non aveva mangiato per giorni.
La vita al campo era stata un incubo, iniziava la stagione delle piogge e tutto era bagnato, sempre, ma si erano presi cura di loro. Jebel aveva voluto per la bimba lo stesso nome della dottoressa che le aveva curate. Al campo non si stancava mai di osservarla mentre lavorava. Non sapeva che le donne potessero essere così belle e importanti!
E aveva scoperto la radio. All’inizio non capiva bene il linguaggio e di che cosa parlassero, ma pian piano aveva imparato a comprendere i discorsi e a distinguerli. Era tutto nuovo per lei.
Ascoltava le notizie sul Sud Sudan. La gente aveva votato un referendum, per l’indipendenza dal Sudan, poco più di un anno prima, nel luglio del 2011, dopo decenni di devastazioni, guerre e guerriglie, Juba era diventata la capitale del Sud Sudan, il nuovo Stato a maggioranza cristiana.
Porto fluviale sul Nilo Bianco, affluente del Nilo, Juba contava al momento più di un milione di abitanti. Nel 2005 ne vivevano meno di duecentomila. Le organizzazioni umanitarie lanciavano continui allarmi: Juba rischiava la catastrofe umanitaria!
Una volta al mese Jebel tornava al campo per la visita a Maja e visitavano anche lei. Tutt’e due erano state inserite in un programma alimentare per un anno. Dovevano prendere degli integratori ogni giorno, quando li finivano era tempo di tornare per il controllo e per il rifornimento.
Un piccolo mucchietto di proteine che le manteneva in vita. Quel giorno, o all’indomani, doveva recarsi al centro. A volte ci andava prima dello scadere della visita, si sedeva in un angolo e ascoltava la radio.
Si avviò verso i capannoni e, dopo una breve sosta, s’inoltrò lungo il sentiero che la portava in direzione della sua capanna. Si vedevano poveri rifugi disseminati ovunque, più che altro erano canne piantate nel terreno tenute insieme da legacci di ogni tipo, con sopra, per tetto, qualsiasi cosa e un pezzo di stoffa, quando esisteva, al posto della porta.
La capanna di Jebel aveva una stuoia all’entrata e una per terra che fungeva da giaciglio. Sul pavimento di terra rossa, appoggiata alle canne, si trovava una brocca per l’acqua, un paio di utensili e un cesto.
Nel cesto si vedevano delle stoffe dai colori vivaci, un paio grandi per lei, alcune piccole per Maja e pochi altri indumenti.
Jebel aveva mangiato una ciambella di cereali all’alba, nient’altro. Sarebbe passata al mercato, per comprare qualcosa, prima di scendere al fiume. Lavò Maja, con i residui dell’acqua che c’era nella brocca, e la cambiò. Al fiume si sarebbero lavate meglio.
La dottoressa le aveva raccomandato di lavarsi le mani ogni volta che poteva! Si sdraiò sulla stuoia con la bimba accanto a sé e la guardò con tenerezza.
Maja era una bimba buona, sorrideva e cominciava a emettere piccoli suoni. Aveva poco più di sei mesi. Lei si sentiva bene. Non si era mai sentita così felice! Il solo fatto di poter andare al campo per il controllo della bimba, una volta al mese, la faceva stare tranquilla.
Quando arrivava, le lasciavano ascoltare la trasmissione che a lei piaceva: “La voce della Donna” di Radio Sudan, condotta da un’associazione umanitaria. Il programma era rivolto alle donne, ai problemi che ogni giorno dovevano affrontare e alle gravi discriminazioni sociali a cui erano sottoposte. Le intervistavano e le aiutavano a raccontare la loro storia. Più dell’80% delle donne del Sud Sudan non sapeva né leggere né scrivere.
Lei non aveva mai sentito queste cose prima, ma le conosceva per averle subite e vissute.
Oggi si rendeva conto del cambiamento e non voleva altri padroni. Stava bene con la sua bimba e voleva stare con lei.
A Juba mancava tutto, c’era tutto da fare, da edificare. Avevano bisogno di molta ghiaia per le strade e per le costruzioni. E lei poteva guadagnare qualche soldo spaccando pietre. Era giovane, avrebbe lavorato ancora tanti anni. Doveva solo stare attenta a non farsi male…
Si addormentarono per qualche tempo. Prima di uscire Jebel si cambiò e si avvolse in un telo di stoffa colorata, era longilinea con lineamenti decisi ma belli, i capelli crespi, corti.
Mise Maja nella sacca sulle spalle, la brocca per l’acqua sulla testa e uscì. Si sarebbe fermata al mercato che si trovava in una spianata lungo la strada.
Il Sud Sudan era una grande terra rossa arsa dal sole, dove vivevano migliaia di persone che andavano in tutte le direzioni. Si trovavano poche strade e pochi sensi di marcia. Inoltre, da quando il paese era indipendente, tutto costava almeno il doppio.
Il mercato era avvolto nella polvere, quando passava una macchina o una mototaxì, sollevava terra in grande quantità. Il panorama era, se possibile, ancor più desolante.
Qualche capannone qua e là, gente seduta per terra che vendeva povere cose, banchetti colorati con merce di tutti i tipi ai lati della strada, bambini che giocavano in mezzo alle immondizie bruciate. Su tutto il mercato aleggiava un odore acre e sgradevole, impastato di polvere e fumo che rendeva l’aria irrespirabile.
Jebel si guardò intorno in cerca di qualcosa da mangiare per cena e per l’indomani. Ai lati della strada cumuli di rifiuti esalavano miasmi di ogni genere, diede un’occhiata nei vari mucchi per vedere se in mezzo ci fosse finito del cibo ancora usabile, ma non trovò niente. Comprò la solita schiacciata di cereali e qualche dattero. Domani avrebbe cercato delle foglie commestibili lungo il fiume.
Imboccò un sentiero laterale, meno trafficato e polveroso e si diresse verso un’ansa del fiume, dove la gente del luogo si recava a prendere l’acqua. Lungo il sentiero il panorama era sempre lo stesso, qualche spiazzo con povere capanne tra gli alberi, qualcuno che lavorava un pezzo di terra o accudiva qualche animale.
Al fiume s’incontrò con altre donne, gli uomini ci venivano di rado. Si vedevano soprattutto donne e bambini! Era un momento sereno. Le donne parlavano e i bimbi giocavano. Alcune di loro erano poco più che bambine e avevano già un figlio o due.
Jebel si mise a chiacchierare intanto che si lavava,  lavava il suo telo e quello di Maja. Maja era felice di trovarsi in mezzo ad altri piccoli e sorrideva. Dopo aver giocato con lei per qualche momento, Jebel la prese in braccio, se la strinse nella fascia sulle spalle, riempì la brocca di acqua pronta per intraprendere la via del ritorno.
Cambiò ancora direzione. Il percorso era più lungo ma le piaceva camminare di là. Lo faceva quasi tutti i giorni. A metà strada si fermò davanti a una costruzione piuttosto brutta, lunga e bassa, era una delle poche case in giro! A Jebel piaceva stare là a guardare la casa. Ogni volta che passava si fermava fuori dalla recinzione e guardava a lungo, sorridendo, i bambini e le bambine che giocavano nel cortile.
I bambini indossavano indumenti simili a un divisa: camicia color panna e gonna o pantaloni blu. Spesso parlava con loro e con gli adulti che vedeva. Le avevano detto che era una scuola. Un luogo dove s’imparava a leggere e scrivere. La dottoressa, al campo, le diceva sempre che doveva imparare a leggere, che doveva andare a scuola e mandare Maja a scuola, ma non c’erano molte scuole nel Sud Sudan. E neanche molti insegnanti, lei non ne aveva mai sconosciuti.
Oggi voleva parlare con qualcuno, avrebbe aspettato di vedere uno dei grandi. Ma non venne nessuno e Jebel, alla fine, se ne andò. Mancava circa un’ora al tramonto, il tempo giusto per arrivare alla sua capanna, prima che diventasse buio.
Sarebbe ritornata domani o un altro giorno. Lei aveva un desiderio grande: voleva chiedere che cosa doveva fare per imparare a leggere e mandare Maja  a scuola quando sarebbe diventata più grande.

Giovanna Rotondo Stuart

L’incontro

Laura aveva lavorato tutto il pomeriggio. Voleva fare bella figura con i nuovi amici che sarebbero venuti a cena quella sera. Il piccolo soggiorno appariva gradevole, aveva apparecchiato il tavolo da pranzo con una tovaglia bianca e piatti di linea moderna, decorati con disegni concentrici, molto allegri. Mancavano i fiori, mise i giacinti blu, acquistati la sera prima, in un cestino e li appoggiò su una mensola della libreria. Incominciavano ad aprirsi. Presto il loro profumo sarebbe diventato  intenso. Si guardò intorno. L’occhiata finale la soddisfò!
A Laura piaceva ricevere, ma non lo faceva spesso: lei e Mario, suo marito, lavoravano ed erano fuori casa tutto il giorno, fino a tardi. Lei era maestra d’asilo, i bimbi erano vivaci e la responsabilità grande, a sera era stanca. Mario lavorava come tecnico di laboratorio in ospedale e aveva un lungo percorso in macchina, prima di arrivare a casa.
Con questa cena voleva suggellare, nel modo migliore, l’inizio di una bella amicizia. Si sentiva eccitata.
Aveva preparato dei cibi diversi, Laura non mangiava né carne, né pesce e, pur essendo certa di fare la cosa giusta, non pensava a se stessa come a una vegetariana, forse per riguardo a Mario, suo marito, che non lo era.
Mario, a volte, lamentava la carenza di quelle pietanze nella loro alimentazione, ma si adattava di buon grado alle scelte di sua moglie e le sosteneva. Non gli mancavano le occasioni per mangiare carne o pesce durante il periodo del pranzo.
Lei, quella sera, avrebbe servito verdure crude e semi per antipasto, con riso integrale poi. Non sapendo che cosa i suoi amici potessero gradire e poiché era la prima volta che si vedevano nella sua casa, aveva deciso, per ospitalità, dopo molti dubbi, di preparare un piccolo roastbeef con patate al forno e verdure cotte.
Il roast-beef,  reminiscenza della sua famiglia di origine, era l’unico piatto del suo repertorio culinario!
In realtà Laura non sapeva come trattare la carne e avrebbe preferito preparare dei semplici menu vegetariani. Ma era riservata e non parlava volentieri delle sue decisioni, pur rendendosi conto che queste diventavano sempre più importanti nella sua vita quotidiana e doveva difenderle.
Sapeva che il troppo uso di carne nuoceva alle persone e gli allevamenti intensivi erano una delle principali cause di inquinamento globale.
La produzione di un chilo di carne aveva costi altissimi: comportava un eccessivo spreco di acqua e la distruzione di intere foreste per avere terreno coltivabile a cereali, il tutto con conseguenze devastanti.
Soprattutto non accettava le sofferenze inferte agli animali e non riteneva etico il commercio indiscriminato di creature viventi, spesso oggetto di crudeltà gratuite.
Era tempo di consumare meno proteine animali e più proteine vegetali!
Pur essendo convinta delle sue idee e in grado di motivarle, Laura non era ancora pronta a rivendicarle, ma era sulla buona strada.
Un dolce al cucchiaio e della frutta, avrebbero completato la cena. Le piaceva! Era tutto pronto, mancava il vino, che era compito di Mario, e poi avrebbe avuto il tempo di rilassarsi un momento.

Durante il percorso che li portava a casa di Laura e Mario, Marianna ricordava la prima volta che si erano visti.
Si erano conosciuti in vacanza loro quattro. Un incontro fortuito. Lei e Roberto avevano bucato e si trovavano sul ciglio della provinciale che portava a Follonica.
Tentavano di cambiare la ruota della loro auto, quando videro arrivare una piccola utilitaria, una Ypsilon, che si fermò a pochi metri da loro:
“Scusate, la nostra macchina ha qualche problema, dobbiamo chiamare un carro attrezzi e un tassì”.
Marianna, sempre diffidente con le persone che non conosceva, non si scompose. Roberto si avvicinò per chiedere:
“Sapete che cosa può essere?”
“Pensavo fosse la batteria, ma l’ho fatta controllare prima di partire e andava bene. La spia è sempre accesa e non mi sento tranquillo. Non vorrei fosse il motore”.
“E’meglio rivolgersi a un carro attrezzi. Potremmo darvi un passaggio fino a Follonica. Io sono Roberto e lei è mia moglie Marianna”.
“Ciao, noi siamo Mario e Laura”.
Il Carro attrezzi arrivò in meno di mezz’ora e dopo qualche tempo si trovarono tutti in città. Mario e Laura insistettero per ricambiare la gentilezza ricevuta e vollero offrire loro qualcosa da bere.
Scoprirono di abitare a pochi chilometri di distanza, in una località della Brianza, in Lombardia. A Bosisio Parini, Laura e Mario, a Cantù Marianna e Roberto. Prima di lasciarsi si scambiarono numeri di telefono e indirizzi e si diedero appuntamento per mangiare una pizza la sera dopo, visto che si trovavano ancora in zona. Da allora si erano rivisti un’altra volta.
Avevano fatto una passeggiata lungo il lago del Segrino, che si trovava abbastanza vicino alle due abitazioni. Stavano bene insieme e quella sera si sarebbero trovati a casa di Laura e Mario, per cena.
“Potremmo organizzare una vacanza insieme”, pensava Marianna.
Quando arrivarono, si misero a parlare tutt’e quattro all’unisono:
“Ma che bello! Molto intimo…”
“Come state?”
“Benissimo, abbiamo avuto una settimana faticosa ma buona!”
Passarono più di un’ora chiacchierando e sorseggiando del vino bianco:
“Direi che è proprio ora di cena. Avverto un certo languore…” disse Mario. Si mossero verso il tavolo da pranzo.
Le crudité erano esotiche e saporite, il risotto anche. Il vino di buona qualità. Una meraviglia!
Riposarono un poco prima del grande piatto di portata finché Laura fece il suo ingresso trionfale con il roastbeef, le patate arrosto e le verdure.
Dopo i giri di convenienza, a cui i due uomini non si sottrassero per niente, arrivò il turno delle donne. Marianna si era riempito il piatto di verdure e qualche patata e così Laura:
“Il roastbeef è molto buono, serviti”,  azzardò Laura, ponendo il piatto di portata accanto a Marianna. Incrociò un’occhiata preoccupata di Roberto, ma non la interpretò.
Marianna, con tono che non lasciava spazio ad altre richieste, dichiarò:
“No, grazie! Non mangio cadaveri”.

Giovanna Rotondo Stuart