Caffè amaro

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Il 16 maggio mi è stato chiesto di fare da moderatrice alla presentazione dell’ultimo libro di Simonetta Agnello Hornby, Caffè amaro, nell’Auditorium di una cittadina della Provincia di lecco. Ho accettato con molto piacere – con qualche patema, per via della mia timidezza – e ho letto il libro. L’ho trovato avvincente nella narrazione e accurato nella ricostruzioni degli eventi del tempo.

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Simonetta Agnello Hornby è nata e cresciuta in Sicilia, ma dal 1972 vive a Londra dove ha esercitato la professione di avvocato dei minori. Oggi è anche scrittrice di grande successo: i suoi libri sono tradotti in tutte le lingue.
Ha pubblicato molto con Feltrinelli e altre case editrici. I suoi romanzi, oltre a raccontare bellissime storie, trasmettono esperienze e conoscenze: in ogni libro Simonetta ha un messaggio da dare, qualcosa da dire. E questo fa di lei una scrittrice singolare e interessante.

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Caffè Amaro è un libro che fa riflettere. Attraverso la storia di una nobile e ricca famiglia siciliana: la famiglia Sala, sono narrate vicende della storia della Sicilia di cui si parla poco o non si parla affatto. Nel libro si percorre un arco di tempo che va dalla fine dell’Ottocento alla fine degli anni Quaranta.
Il romanzo incomincia con l’incontro dei due protagonisti, Maria e Pietro. Pietro si innamorerà di Maria guardandola dalla finestra: “un vero colpo di fulmine”. Ai due personaggi si aggiungerà Giosuè, l’altro protagonista del racconto.
Nelle prime pagine del libro Giosuè rievoca il massacro di Vuttara, a cui ha assistito bambino di sei anni, e dove suo padre è stato ucciso durante una manifestazione pacifica organizzata dai Fasci dei lavoratori siciliani. Una manifestazione per la presa di possesso simbolica della terra di un ex feudo, diventato demaniale, che doveva essere assegnato e diviso tra i contadini. Terreni che erano voluti da uomini potenti e dalla mafia. Era il 20 gennaio del 1893.
Giosuè viene affidato da suo padre, prima di morire, al padre di Maria, che aveva partecipato con lui al corteo, con la promessa di allevarlo ed educarlo.
Si racconta, in modo avvincente, la nascita della famiglia di Maria e Pietro. Il desiderio di emancipazione di Maria, il suo grande senso del dovere. Una fanciulla che non avrà una vita facile, ma che sarà anche felice.
La scoperta del suo amore per Giosuè, che è ebreo, le leggi razziali, le guerre, i terribili bombardamenti di Palermo ci accompagneranno lungo tutto il percorso.
E non manca una toccante descrizione delle condizioni di lavoro dei carusi, bambini di sette, otto anni che lavorano nelle miniere di zolfo. Il libro è animato da un profondo senso di giustizia e di amore ma anche da grande sfiducia verso la politica, sempre camaleontica e lenta nel dare risposte.
La storia chiude, sul finire del romanzo, con il resoconto di un’altra strage, avvenuta, questa, a Palermo, Il 19 ottobre del 1944, cinquant’anni dopo quella dei Fasci dei lavoratori siciliani. Si spara contro un corteo a cui partecipano donne, uomini, ragazzi e perfino bambini che marciano, cantando disarmati: “pane, pasta e lavoro”. Vengono uccisi 24 manifestanti e feriti centocinquantasei. “La strage del pane”, così verrà chiamata, rimarrà impunita.
Nonostante in quel periodo storico vi siano eventi tragici, non è un libro triste: la storia dei personaggi, il loro carattere, affascina il lettore. Un bel libro!

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Giovanna Rotondo

Biografia Ufficiale di Simonetta Agnello Hornby

Nata e cresciuta a Palermo, Simonetta Agnello Hornby ha sposato un inglese dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza nel 1967. Da allora ha vissuto all’estero, dapprima negli Usa e in Zambia e poi, dal 1970, a Londra.
Nel 1979 ha fondato Hornby and Levy, uno studio legale nel quartiere di immigrati di Brixton che ben presto si è specializzato nel diritto di famiglia e dei minori. Hornby and Levy è stato il primo studio d’Inghilterra a creare un settore riservato ai casi di violenza all’interno della famiglia.
La maggior parte dei clienti dello studio è caraibica o nera, e nel 1997 Hornby and Levy ha pubblicato in un libro, The Caribbean Children’s Law Project, il risultato della ricerca sui diritti dei minori e sulle strutture per i minori condotta da quattro membri dello studio legale in Giamaica, Trinidad, Barbados e Guyana. È tuttora l’unico lavoro del genere al mondo.
Simonetta Agnello Hornby ha insegnato diritto dei minori all’Università di Leicester e per otto anni è stata presidente part time dello Special Educational Needs and Disability Tribunal. Dal 2000 ha iniziato a scrivere e ha pubblicato con Feltrinelli molte opere tra cui La Mennalura, il suo primo romanzo, tradotto in 19 lingue e che ha avuto riconoscimenti e premi importanti, tra cui: Premio Letterario Forte Village; nello stesso anno, ha vinto il Premio Stresa di Narrativa e il Premio Alassio Centolibri – Un Autore per l’Europa, ed è stato finalista del Premio Giovedì ”Marisa Rusconi”.
Dal 2008 Simonetta Agnello Hornby, pur continuando a esercitare l’attività di avvocato, si dedica principalmente alla scrittura. Dal 2012 collabora con la Global Foundation for the Elimination of Domestic Violence, attiva in Italia attraverso l’affiliata EDV Italy.

 

Il Risveglio

L’odore che emanava era terribile. Non si respirava quasi. Pensò al medioevo, ai miasmi di allora: a quei tempi esseri umani, animali, rifiuti di ogni tipo e quant’altro vivevano in piena promiscuità. “Ma cosa avete portato. Un pezzo di fogna?” si rese conto che era una cosa seria quando lo vide sulla barella. Due poliziotti controllavano le operazioni di soccorso.
“E’ morto?”
“Sembra di no. Ma lo sarà a breve se non fate qualcosa subito”.
Donata Rosci guardava l’uomo, in posizione fetale, immerso nei suoi escrementi da più e più giorni. Gli occhi sigillati dalle croste, capelli e barba incolti, in uno stato di sporcizia totale.  Cachettico. Sembrava già in preda ai vermi… Bisognava idratarlo ancor prima di pulirlo, rischiava di morire nel frattempo: c’era il pericolo di un blocco renale! Gli disinfettò lei stessa le braccia per le flebo, inserì gli aghi. Preparò ogni cosa con estrema cura, avvertendo tutta la responsabilità delle sue azioni. Gli guardò gli occhi, le croste erano spesse, purulente. Ed era pieno di piaghe, dovevano fare attenzione alle infezioni. Inserì degli antibiotici nella flebo. Fece dei prelievi di sangue da mandare in laboratorio. E proseguì con una prima, accurata disinfezione e pulizia degli occhi. Se avesse superato le prossime ore, avrebbero potuto pulirlo e cambiarlo, sarebbe stato difficile curarlo, altrimenti. Era la seconda volta che pensava “se”. Fu presa dalla nausea e dovette uscire: “Per fortuna è una notte tranquilla”, pensò. Accadeva di rado. “Chissà chi è e come ha fatto a ridursi così o chi l’ha ridotto così”. Avrebbe voluto sapere, ma preferì non chiedere. Non ancora. Era tempo di consultare i colleghi nei reparti e sentire la loro opinione: queste prime ore di cure sarebbero state fondamentali. Donata parlò personalmente con i medici di guardia in nefrologia e in medicina, presenti per il turno di notte, chiese loro di venire al più presto alla rianimazione del PS per un codice rosso. Il gruppo, dopo essersi consultato, decise che bisognava continuare con le flebo e verificare spesso le funzioni renali, che potrebbero essere state compromesse dall’assenza di liquidi. Si poteva procedere a una disinfezione e medicazione delle piaghe dell’uomo, prima di spostarlo in un altro reparto. Donata guardò l’ora, era mezzanotte: bisognava rapargli barba e capelli il più possibile, erano infestati da parassiti. Tagliare gli indumenti che aveva indosso e rimuoverli cercando di non strappargli pezzi di pelle. Continuare con la terapia antibiotica via flebo, la reidratazione e nutrizione sempre via flebo e… sperare!
La dottoressa, insieme al personale ausiliario, si prodigò al massimo: passò la soluzione disinfettante sulle piaghe per rimuovere gli indumenti, diverse volte. Con delicatezza. L’uomo era pelle e ossa, non c’era più niente, solo organi e pelle! Lo girarono pian piano sull’altro lato e rifecero le stesse operazioni. Albeggiava, Donata era sfinita ma contenta: si era affezionata a quel povero essere indifeso che giaceva come un infante. Aveva eseguito con scrupolo tutto quanto era possibile per rimediare al danno da lui subito. Di positivo c’era che l’uomo era ancora vivo: era stato bonificato, coperto da un lenzuolo pulito e presto sarebbe stato trasferito in reparto. Non puzzava più!  Sarebbe tornata a trovarlo al ritorno in servizio. Si chinò a guardarlo con attenzione, quasi volesse ricordarsi del suo viso, dei suoi lineamenti e fu allora che lo udì bisbigliare parole incomprensibili: le sembrò di sentire il nome di una donna o fu solo la sua immaginazione? Il mormorio non era chiaro e non aveva senso logico. Donata provò a fargli delle domande:
“Come si chiama? Sa dirmi chi è?” ma non ci fu risposta.
Prima di staccare dal turno, volle sapere la storia al funzionario di polizia che nel frattempo era venuto a chiederle come stava:
“Difficile dirlo… sono ottimista, c’è stato il tentativo di pronunciare alcune parole, un tentativo meccanico, incomprensibile, non ha ancora ripreso conoscenza: è presto per sciogliere la prognosi. Le prossime ore saranno decisive. Posso sapere qualcosa di lui?”.
Il funzionario raccontò che l’avevano trovato per caso nell’Interland Milanese. Erano all’inseguimento di alcuni spacciatori. Cercavano una consistente partita di droga e setacciavano qualsiasi nascondiglio: siepi, sassi tutto ciò che potesse servire allo scopo. Uno dei cani, raspando il terreno, aveva mosso un piccolo oggetto luccicante: un gemello da polso, molto bello, con delle iniziali, un oggetto strano per quei luoghi! Avevano cominciato a battere il territorio intorno palmo a palmo: ogni siepe, arbusto, finché, sempre per caso, si erano trovati nei pressi di un casupola bassa resa invisibile dalla sterpaglia, senza finestre, solo una grata, per l’aria. Ideale per nascondere della merce. Avevano chiesto rinforzi e tirato giù una pesante porta di legno, chiusa da due robusti catenacci: uno in alto e uno in basso. E lì la scena indescrivibile, il resto lo sapeva. Avevano molti indizi e pochi dubbi sull’identità dell’uomo. Si trattava di un imprenditore sequestrato un paio di mesi prima e di cui si era perso il contatto: Antonio R. La famiglia era già stata allertata. Donata era giunta alla fine del suo turno. Più che un turno era stato un viaggio, ma non voleva andar via. Aveva davanti agli occhi il viso dell’uomo, un cenno di sorriso agli angoli della bocca, quasi sognasse. Chiese al collega di tenerla informata sugli sviluppi della situazione del malato e di comunicarle un suo eventuale trasferimento presso altri ospedali.

Percepiva una sensazione di benessere totale, si sentiva avvolto in una luce bianca che avvertiva filtrare da sotto le palpebre: leggero, pulito, in pace con se stesso, come se fosse appena nato. Accade, qualche volta, tra il risveglio e il sonno, se si è dormito bene. Desiderò di bere una tazza di thé… una tazza di thé forte e nero e di fare una passeggiata: com’era il nome di quei fiori profumati che amava tanto?
Non aveva ancora aperto gli occhi. Ma era da tempo che sentiva la vita intorno a sé. Aveva avvertito lacrime, bisbigli, parole, carezze. Voci ovattate, sussurrate, tenere. Prima o poi avrebbe dovuto arrendersi al mondo là fuori, guardarlo… guardarsi. Sapeva chi era, cosa gli era accaduto e immaginava di sapere dov’era, ma non voleva parlare, non ora, non ancora: non voleva rispondere a domande, raccontare.
Aveva bisogno di solitudine, doveva capire tutte le sensazioni che sentiva dentro di sé, confrontarsi con quella persona nuova, sconosciuta, diversa, che era in lui. Una persona nuova, nata in ore di solitudine e sofferenza. Qualcuno gli toccò la mano, il polso, lievemente. Lui socchiuse gli occhi appena, appena. Vide un camice bianco. Lei gli sorrise:
“Buongiorno. Vedo che sta meglio. Sono Donata Rosci. Ero di guardia al Pronto Soccorso quando l’hanno portata qualche giorno fa. So che è vigile da qualche tempo, non si preoccupi di parlare. Sono entrata un momento per vedere come sta…”
Aveva un timbro di voce che avrebbe voluto ascoltare a lungo, il suo primo contatto dopo tanti giorni terribili, ne rimase avvolto, conquistato. Se ne stette con gli occhi socchiusi a guardarla. “Non vada via, La prego”, sussurrò.
“Non si affatichi a parlare. Lo faccia piano. Potrebbe causarle molta sofferenza”.
“Sì, ma non per gli ultimi avvenimenti. Non sono quelli i più terribili. Quelli potrò raccontarli”, chiuse gli occhi, un’espressione di dolore gli incrinò volto. I suoi pensieri erano lucidi. Donata gli strinse la mano, gliel’accarezzò. Capiva le sue parole, il desiderio di manifestare a qualcuno, a se stesso, il suo tormento per ciò che era stato ma, soprattutto,  la persona nuova che era in lui. Stava meglio, non era più in pericolo di vita, aveva davanti una lunga convalescenza, nel corpo e nello spirito:
“Vieni ancora a trovarmi, ti prego” e tacque.
Lei gli accarezzò la mano e gli sfiorò, il viso. Si vive una vita con gli altri, si parla con loro per abitudine, senza comprendersi poi, un giorno, avviene che s’incontra uno sconosciuto di cui si sa tutto, senza parlare. Indugiò qualche istante prima di lasciarlo. “A volte, gli istanti valgono una vita intera”, si disse.

Antonio, sempre con gli occhi socchiusi, ripercorreva la storia della sua vita, l’antro buio e puzzolente in cui l’avevano tenuto prigioniero. Giorno dopo giorno aveva ricostruito momenti, ore, interi anni della sua vita passata, incominciando da quando era bambino fino agli ultimi istanti di coscienza. Ogni volta che ritornava indietro nel tempo, ritrovava nuovi episodi, era stato come scrivere un libro nella sua mente. La visione della sua vita, in quelle lunghe ore di passione e di intensa solitudine, l’incontro con se stesso, un se stesso che non conosceva, l’aveva addolorato. Il rimpianto di non aver vissuto con tenerezza, di non avere amato, la scoperta di essere vissuto per affermare le sue ambizioni, oltre ogni ragionevole principio, gli procurava sofferenza. Soprattutto a causa di Cristina, sua figlia. Cristina aveva sentito il peso della sua lontananza affettiva, era cresciuta con un padre che faceva scelte socialmente apprezzabili e di successo, ma certo non aiutavano un bimba a formarsi, a diventare adulta, ad avere fiducia. La sua vita di oggi, inquieta e infelice, lo testimoniava. La ricordava corrergli incontro molto piccola, felice di vederlo, lui l’accarezzava distratto, come si fa con un cagnolino, senza quasi rendersi conto di lei, preso com’era dalle sue aspirazioni. Ed era sempre stato così! Ripensò a Sara, sua moglie, e a Dario, suo collega e amico. Dario amava sua moglie… da una vita aspettava il momento per stare con lei. Antonio non se n’era mai reso conto, ne aveva la certezza oggi, rivedendo immagini ed episodi del passato. Ma Sara? Si assopì, pensando a una Sara che non conosceva, il suo rapporto con lei era stato sempre alquanto  formale. Lei entrò in quel momento, si avvicinò, sperando di trovarlo sveglio. Sapeva che era fuori pericolo, non sapeva quali conseguenze, il sequestro che aveva subito, avrebbe avuto sulla sua psiche e sul suo fisico. Poco dopo entrò Dario:
“Novità? Ha ripreso conoscenza?”
“Non in mia presenza. Il medico assicura che ha momenti di lucidità. Presto lo aiuteranno ad alzarsi e ad alimentarsi autonomamente. Dovrà andare in dialisi, ma non è detto che ci debba rimanere tutta la vita. Ho parlato con il funzionario di polizia, mi ha fatto vedere un gemello con le iniziali: era il suo! L’hanno trovato nei pressi di una casupola del milanese, per pura coincidenza; deve averlo smarrito mentre lo trasportavano. Se non avessero trovato il bottone e acuito le indagini nella zona, non l’avremmo più rivisto vivo. Sembra che i sequestratori l’avessero abbandonato o  fossero fuggiti, benché siano  solo supposizioni,”.
L’avevo tolto mentre mi trasportavano, non ero del tutto cosciente e non speravo che ce l’avrei fatta a farlo cadere. Dal suo sonno veglia, Antonio seguiva brani di conversazione, era ancora molto debole e non riusciva a rimanere presente a lungo.
“Ho bisogno di parlarti, Sara. Ho bisogno di parlare con te una volta per tutte, dobbiamo decidere. Sono contento che l’abbiano trovato, il pensiero di lui mi torturava giorno e notte”,  la voce di Dario era incrinata, stanca, quasi disperata.
“Non adesso, non qui. Potrebbe aprire gli occhi da un momento all’altro. Lo faremo nei termini che vorrai appena lui si sarà ristabilito del tutto. Ricorda che io non ti ho mai promesso nulla. Non ho mai illuso le tue aspettative”,  il tono di lei non ammetteva repliche. “Mi hanno anche chiesto che cosa so del suo sequestro e le ragioni per cui abbiamo aspettato più giorni, prima di denunciare la sua scomparsa. Ho risposto che non so nulla più di quanto dichiarato e mi sono affidata a te per qualsiasi decisione” Dario non commentò.
Sara si era sempre adeguata alle situazioni, non aveva mai tentato di discutere: bella e all’apparenza fredda! Chissà se avesse mai avuto il desiderio di un’altra vita.
Si appisolò di nuovo, per svegliarsi senza sapere quanto tempo fosse intercorso tra prima e adesso. C’era qualcuno nella stanza, socchiuse appena gli occhi, tuttavia non si preoccupò di guardare chi fosse. Sentì una voce maschile che diceva:
“E’ tempo che incominci a muoversi. E’ necessario capire il suo stato. Tra oggi e domani l’aiuteremo ad alzarsi e tenteremo di parlare con lui” non era la voce di Dario.
Chissà se Cristina è stata qui… non importa se non viene. Spero di stare con lei quando sarò ritornato a casa… A casa? Ma è ancora la mia casa? No, non tornerò a vivere nel passato…  E si riassopì con quel pensiero.

Giovanna Rotondo Stuart