La Scala non è il Partenone di Giuseppe Leone

Tutto mi sarei aspettato, meno di vedere una Prima della Scala in perfetto stile Grande Fratello, all’interno di un teatro senza pubblico e senza applausi.
Un appuntamento certamente mancato ma candidamente spacciato come Prima della Scala 2020/21, né più né meno. E per di più, ispiratore di belle speranze già nel titolo A riveder le stelle, ultime parole della prima cantica della Commedia dantesca, la sera del 7 dicembre 2020, a pochi giorni dal giro d’onore del Poeta attorno al mondan romore nel settecentesimo anniversario dalla sua morte.
Certo, un titolo con tanto di allegoria, ma che allude a cose pur sempre materiali e mondane: le stelle della lirica, in barba all’allegoria dantesca.
Tutto questo, come surrogato di Lucia di Lammermoor, l’opera che avrebbe dovuto inaugurare la stagione scaligera, ma che non ha avuto luogo a causa del coronavirus.
Non voglio entrare nel merito dei brani musicali, dei passi di danza o dei versi di poesia che sono stati eseguiti; né delle prestazioni degli interpreti, né del commento dei presentatori. Mi sia solo concesso di dire che anche una sola nota a Bellini gliel’avrei lasciata cantare. Preferirgli Giordano, m’è sembrata una scelta di dubbio gusto. Ma non è questo il problema.
Quale senso abbia avuto un concerto del genere, continuo a domandarmelo ancora dopo la sua conclusione. Eppure, l’occasione per fare qualcosa di nuovo e di diverso, questa volta c’era, eccome se c’era!
C’era, se si dava a questo 2020 la numerazione di Anno Zero relativamente a un pianeta che vive per la prima volta dentro la dimensione di una realtà unica e unificata (la seconda, se si dà credito storico al diluvio universale).
L’occasione l’aveva avuta nientemeno la Scala con questa sua Prima, se solo avesse trasformato la sua 243esima inaugurazione in una serata esclusivamente destinata alla prosa. Ma non l’ha fatto.
Non l’ha fatto, forse perché il celebre teatro non è stato libero di pensare, di sentire, di vedere, di scegliere. Eppure io credevo (sbagliando, ahimè, in pieno) che la Scala godesse di una maggiore identità nazionale e internazionale, tale da poterla spingere a rivivere l’esempio di Marinetti che, molti anni prima, nel lontano 1933, nel manifesto dei giovani artisti futuristi greci in cui si chiedeva la demolizione dell’Acropoli, consapevole dell’orgoglio nazionale greco, fece parlare il Partenone per invitarli ad allontanarsi dalla tradizione.
Si poteva, perché no, far parlare anche la Scala, attraverso uno spettacolo che esortasse a riaprire i teatri. Perché il governo ha, sì, dettato le regole (mascherine, distanza e sanificazione), ma senza poi dare ai teatri stessi la possibilità di metterle in pratica. E non solo ad essi, ma neanche al cinema, allo sport, alla scuola. Ha fatto le leggi, ma ha negato a cittadini e istituzioni il diritto di esercitarle, disattendendo così a quell’articolo della costituzione in cui si legge che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Eppure, sarebbe bastato far viaggiare quelle riforme su ruote. Bastava solo dare l’imput, partendo dai trasporti. Cosa che non è stata fatta. Né la stampa, ligia, più che altre categorie, a portare la mascherina, ma sugli occhi, ha visto nulla per gridare al gigantesco errore.
Quella sera la Scala avrebbe potuto parlare e Quasimodo le avrebbe anche prestato i versi per iniziare:

E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

E poi? poi, non sto a dire altro, perché lo scopo di questo articolo non è la stesura di un copione alternativo, ma la denuncia contro una Scala che non s’è fatta trovare pronta.
Avrebbe dovuto e potuto sospendere il canto, per rispetto, prima, nei confronti di se stessa perché era vuota; e poi, di un bollettino, quanto a contagiati e morti, che richiedevano, senz’altro, più silenzio e maggiore attenzione. In questo modo, avrebbe onorato – per dirla con Tomasi di Lampedusa – i vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto.
E perciò, l’impressione che ho ricevuto, assistendo a questa Prima televisiva, è stata quella di una Scala attenta solo alle sue paure, sicura solo se dimenticata e nascosta tra le mura del suo teatro. Tutte immagini, a cui mi hanno avvicinato certi versi della Pentecoste, in cui Manzoni, rimproverando la Chiesa nascente (gli apostoli che se ne stavano chiusi nel Cenacolo, mentre Cristo veniva condotto a morire sul Colle), dà tutta l’aria d’averne celebrato l’Anteprima di questa Prima del teatro milanese:

In suo terror sol vigile,
sol nell’oblio secura,
stavi in risposte mura,
fino a quel sacro dì.

Giuseppe Leone

Buongiorno, in un momento di chiusura a qualsiasi attività culturale, e chissà fino a quando, la lettura di quest’articolo farà rifletter sulla funzione della cultura e quale potrebbe essere il suo ruolo .

CAMILLERI, DE CRESCENZO E, SI DA’ IL CASO, IL PARADISO RITROVATO.

“Duje viecchie prufessure ‘e cuncertino,
Nu juorno, nun avevano che fá.
Pigliájeno ‘a chitarra e ‘o mandulino
E, ‘n Paraviso, jèttero a suná:
– Ttuppe-ttù – “San Pié’, arapite!
Ve vulimmo divertì”
“Site ‘e Napule?! Trasite!
E facitece sentì”

     Proprio come i duje viecchie prufessure ‘e cuncertino della nota e divertente canzone napoletana, in una calda giornata di luglio 2019, Andrea Camilleri e Luciano De Crescenzo, scrittore drammaturgo, il primo;  ingegnere filosofo, il secondo, lasceranno la Magna Grecia dove vissero per moltissimo tempo, per salire alla volta del cielo. 

     Anch’essi, come i nostri della canzone, presi dalla noia  nella sonnolenza del meriggio, si recheranno in paradiso per divertirsi e divertire, a loro volta,  la corte delle anime beate, portandosi dietro un repertorio di opere che nun ferneva maje

     Al cospetto di San Pietro, non si presentano con i loro nomi, li cambiano in Tiresia e Bellavista. L’uno, cieco; l’altro, dallo sguardo ancora gratificante, ma entrambi vedenti. Tiresia di più, tanto che afferma: «Da quando io non vedo più, vedo meglio».

     E, per di più, si presentano in paradiso, da laici. Così Tiresia-Camilleri, che dice di sé: 

     Ho trascorso questa mia vita ad inventarmi storie e personaggi. L’invenzione più felice è stata quella di un commissario conosciuto ormai nel mondo intero. Da quando Zeus, o chi ne fa le veci, ha deciso di togliermi di nuovo la vista, questa volta a novant’anni, ho sentito l’urgenza di riuscire a capire cosa sia l’eternità e solo venendo qui posso intuirla, solo su queste pietre eterne. Chiamatemi Tiresia!

    E anche  Bellavista-De Crescenzo, che si definiva ateo-cristiano o ateo-sperante nell’esistenza di Dio,  dà il suo biglietto da visita per motivare questo viaggio assieme: 

Siamo angeli con un’ala soltanto e possiamo volare solo restando abbracciati!

     Rimarranno per qualche sera a magnificare la bellezza dei luoghi da cui provengono.Ma, quali colombe dal disio chiamate, con l’ali alzate e ferme al dolce nido, anche loro, trascorse alcune serate nella gioia del paradiso, come accade ai due nella canzone, chiedono di ritornare a Napoli … e in Sicilia:

“… doppo poco, da ‘a malincunía
‘E viecchie se sentettero ’e pigliá:
Suffrévano nu poco ’e nustalgía
E, a Napule, vulèttero turná,

perché  “per me – dirà De Crescenzo – la napolitudine è un tipo di nostalgia inspiegabile, perché a me Napoli manca sempre, persino quando sono lì!” 

E anche a Camilleri, della sua Sicilia, manca soprattutto “u scrusciu du mare”. 

     A differenza, però, dei duje viecchie  prufessure, essi non sono più tornati, pare, perché San Pietro abbia temuto che, una volta scesi, questi non avrebbero fatto più ritorno nel paradiso dei cristiani. Chissà – si sarà domandato – che altri paradisi non li avrebbero richiesti per i loro intrattenimenti serali. Meglio tenerseli, dunque. Tutto questo, almeno, fino al compiersi del primo anniversario dalla loro morte, avvenuta, per Camilleri il 17  luglio, per De Crescenzo, appena il giorno dopo, a poche ore di distanza l’uno dall’altro.

            Giuseppe Leone

                                                       

Andrea Camilleri e Luciano De Crescenzo

Un bell’articolo di Giuseppe Leone a ricordo di due grandi Artisti del nostro tempo.