Giovanna Rotondo: Orlando Sora, affresco, la Moderna, Lecco

 

 

ORLANDO  SORA

LA COOPERAZIONE, AFFRESCO 1958

 

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Ricordo bene il tempo in cui Orlando Sora si accingeva a dipingere l’affresco del grattacielo della Moderna: è stata la prima volta che ho assistito  alla complessa preparazione di un affresco. Dapprima la realizzazione del bozzetto e le sue varianti, poi le prove su mattoni di coccio e, infine, la preparazione degli spolveri. Gli spolveri sono i cartoni con i disegni dell’affresco: si buca il tracciato del disegno con una rotellina, in seguito si appoggia il cartone bucato sull’intonaco umido e si tampona o “spolvera” con un sacchetto di tela riempito di carboncino; in questo modo i contorni del disegno rimangono tracciati sulla parete e vengono poi affrescati intanto che l’intonaco è “fresco”.  Il mio aiuto consisteva nel tenere il foglio aperto e ben steso intanto che Sora lo bucava.

Orlando Sora amava l’affresco, ne parlava sempre e si emozionava parlandone: era affascinato dalla trasparenza che assumevano i colori assorbiti dall’intonaco fresco, una pittura viva che si legava a tutti gli elementi che la componevano. L’Arte e mestiere del Rinascimento a cui Sora si riferiva seguendo e studiando le tecniche di Cennino Cennini  e di Giorgio Vasari, i suoi maestri.

L’affresco del grattacielo della Moderna presenta tutte le caratteristiche dei grandi affreschi: la trasparenza del colore, la bellezza della composizione, la tecnica e la maestria dell’esecuzione.

Giovanna Rotondo

Giovanna Rotondo: Orlando Sora, l’artista che abbiamo amato

Orlando Sora

L’artista che abbiamo amato

Copia di autoritratto 1937

Orlando Sora, con quel viso tagliato nella pietra, i capelli neri, ricci ricci, un fisico asciutto, aveva mantenuto un certo fascino anche in là con gli anni. 

Quando l’avevo conosciuto, aveva superato da poco la cinquantina, non aveva nulla dell’uomo di quell’età, i suoi capelli erano ancora ricci e neri e gli capitava di  arrossire spesso nonostante gli anni. La timidezza era il suo cruccio, mi raccontava spesso della fatica per superarla, soprattutto in eventi come i concerti, poiché era un appassionato musicista e suonava in pubblico.  

Mi aveva fermato un giorno che l’avevo incontrato insieme a suo figlio Riccardo e, con un’aria quasi da ragazzo, mi aveva avvicinato e chiesto se potesse farmi il ritratto: “Sono Orlando Sora e questo è mio figlio Riccardo, volevo chiederti se posso farti il ritratto, sono un pittore”. Io non avevo capito subito, ero una ragazzina piuttosto sprovveduta, arrivata dal sud con la valigia di cartone insieme alla mia famiglia, qualche anno prima, e mi sentivo ancora spaesata. Lui mi aveva ripetuto l’offerta e mi aveva detto di chiedere il permesso ai miei genitori. Era stato l’inizio di una bella storia tra il pittore e la sua modella.

Non ho mai dimenticato la sensazione che ho avuto la prima volta, entrando  nello studio di Via Appiani e guardando i suoi dipinti: mi ero sentita come Alice nel paese delle meraviglie… li avevo amati! L’intuizione confusa  di trovarmi davanti a qualcosa di grande era diventata, con il tempo, una certezza.

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Lo studio, uno stanzone luminoso con due ampie finestre che arrivavano al soffitto, un pavimento di vecchi listoni di legno divenuti grigiastri e polverosi per l’uso, aveva un’atmosfera  affascinante. C’erano cavalletti di diverse misure ai lati e quadri dappertutto: appoggiati al muro della parete in fondo, per terra, messi uno sopra l’altro, appesi. Tantissimi. Il tutto poteva appariva  disordinato, ma ogni oggetto aveva la giusta collocazione. Sora lavorava sul cavalletto posto al centro, con accanto il tavolino dove impastava le terre  e creava i suoi colori, e, dietro, la pedana per i ritratti.

E’ stato bello posare, mi sentivo parte di qualcosa, veder realizzato un dipinto  a cui avevo contribuito con la mia presenza, mi sembrava un sogno: oltre alla ragazzina scontrosa qual ero, ce n’era un’altra che lui aveva intravisto e dipingeva.

Ho avuto il privilegio di veder nascere uno dei miei dipinti preferiti: “Il paesaggio con la luna”. Ricordo che me ne stavo seduta in un angolo dello studio, immobile come uno dei tanti quadri intorno a me, attenta a non distoglierlo dalla sua ispirazione mentre lavorava. Lui dipingeva assorto, arretrando di tanto in tanto, gli occhi socchiusi per meglio mettere a fuoco la sua opera, dimentico della mia presenza e da tutto quanto lo circondava.

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“Il paesaggio con la luna” una composizione con in primo piano una figura solitaria, in piedi contro la montagna dove si appoggia una luna gialla e, vicino, un cavallo bianco. Un’opera che dà la percezione dell’infinito e da cui traspare una grande spiritualità. Due creature a contatto con la natura, nel silenzio. Mi sono sentita come se fossi quella figura solitaria del dipinto, e, ancora oggi, ogni volta che lo guardo, avverto la stessa emozione.

Un giorno gli avevo detto: “Mi piacerebbe descriverti mentre dipingi”.

Sora, un artista che guardava al Rinascimento… Il desiderio di poter realizzare un’opera di pittura murale come l’affresco,  diventava, per lui, una necessità: “Il libro dell’Arte” di Cennino Cennini” era il suo riferimento. Un manuale che parla di pigmenti, pennelli,  tecniche d’affresco e molto altro;  un testo da cui non si può prescindere, se si è artista a tutto tondo. 

Mi permetteva, talvolta, di aiutarlo a bucare con un punteruolo gli “spolveri”, i cartoni con i disegni degli affreschi da appoggiare sulla parete da affrescare, in seguito li avrebbe tamponati con un sacchetto di tela riempito di carboncino, per tracciare i contorni sull’intonaco fresco. Arte e mestiere. 

Ci ha lasciato opere di eccezionale bellezza come “Il Giorno del Giudizio” l’affresco  della Chiesa di San Giuseppe al Caleotto, degna di Giotto e Masaccio, i suoi Maestri. 

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Alcuni suoi ritratti sono autentici capolavori. Ce n’era uno che a me piaceva molto per l’espressione profonda e malinconica che vi traspariva, una piccola testa che mi raffigurava. L’ammiravo sempre, sapevo  che se gliel’avessi chiesta  me l’avrebbe donata. Ma non avevo mai osato, ora non so dove sia. 

Un altro ritratto che trovavo più che bello era quello di sua figlia Vanna che studiava: una bimbetta con le trecce castane, in posa di tre quarti, avvolta in sfumature di luce dalle tonalità pastello  con qualche lieve tocco bianco/azzurro. Uno dei più intensi e particolari: si trova a Villa Manzoni,  nelle Sale dedicate alle opere di Sora.

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C’erano quasi trent’anni di differenza tra il “Paesaggio con la luna” il mio ritratto e “La figlia del pittore”. Quest’ultimo appartiene al periodo degli Anni Trenta, un tempo in cui Sora aveva dipinto molto con la sua famiglia, i suoi figli: un periodo amorevole, dai toni chiari e luminosi. L’altro, agli Anni Sessanta, un momento altrettanto bello, come ogni tempo della sua pittura.

Emozioni simili si possono percepire in molte delle opere di Orlando Sora. Trovo che lui avesse la capacità di cogliere l’aspetto più intimo della personalità di chi gli stava di fronte, soprattutto quando si sentiva in sintonia, e, nelle composizioni, di esprimere la spiritualità dell’essere umano. 

Al pomeriggio, quando finiva di dipingere o disegnare, dopo aver lavato i pennelli, suonava e studiava la chitarra classica fino all’ora di cena. La chitarra classica, uno strumento dal suono limpido e forte, era l’altro grande amore della sua vita dopo la pittura e la sua famiglia: aveva le più belle chitarre che si potessero trovare!  A quell’epoca Sora era considerato  uno dei migliori chitarristi classici e aveva suonato spesso con Segovia del quale era amico. La musica l’appassionava tanto quanto la pittura: ha suonato come solista per la Gioventù Musicale, ha accompagnato la Corale di Lecco nei sui concerti, ha studiato contrappunto e l’ha fatto da solo, come da solo eseguiva le trascrizioni dal liuto alla chitarra classica e componeva musica senza scriverla, per puro piacere. 

Un solitario, un autodidatta di straordinario talento! 

Mi diceva: 

“Leggere una pagina di musica è come leggere un racconto in un libro, con la differenza che qui la storia è scritta con segni diversi e le si può dare un suono con uno strumento”.

Giovanna Rotondo

Orlando Sora Artista del Novecento alla Biblioteca Civica del Comune di Galbiate

Una serata dedicata a Orlando Sora, l’artista marchigiano che ha vissuto a Lecco gran parte della sua vita. Per l’occasione verrà presentata la Nuova Edizione del libro  di Giovanna Rotondo dedicata a Orlando Sora e arricchita da un racconto dello scrittore Fabio Tombari. Gianfranco Scotti leggerà brani del libro e parlerà dell’opera di Sora insieme a Federica Antonelli che presenterà la sua tesi “Orlando Sora Artista del Novecento Lombardo”. Durante tutta la serata verranno proiettate   immagini, suggestive e inedite, delle opere di Sora.

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